Il Manifesto della “Cucina Concreta”, riflessione e dibattito

Home/news, diario/Il Manifesto della “Cucina Concreta”, riflessione e dibattito
Cara amica, caro amico,
Raramente nei miei scritti parlo di cucina. Preferisco portare altre riflessioni, legate più al mondo della sostanza, quella immutabile ed eterna, che non a quello della materia, più effimero e in continua trasformazione.
La sostanza corrisponde all’ordine cosmoetico ed è chiamato Dharma dalla cultura vedica. Rispettandolo ogni essere può mantenersi collegato alla Fonte, se infranto non considerando questa evidenza, la relazione ontologica viene a meno e l’individuo inizia a vagare, perdendosi nei flutti di una realtà materiale imprevedibile. Le altre creature vi aderiscono in modo naturale, l’umano ha la facoltà di comprensione e attraverso il libero arbitrio ha l’opportunità di scegliere ciò che è più o meno aderente ad esso. A questo punto si potrebbe iniziare una disquisizione teologica che lascio a un altro scambio.
Ciò che andrebbero invece considerati sono i segnali di scollamento, cercare di capirne le cause e contribuire a degli aggiustamenti di tiro.
Il motivo di questo scritto è dato dall’impellenza che sento nel sottolineare e salvaguardare i valori dell’etica e della morale, che sono presenti in ogni tradizione. Questi sono alla base di una società sana e permettono al viandante umano di scalare la impervia, ma affascinante, montagna della consapevolezza.
Le basi sono state gettate da millenni di esperienza e di saggezza, maturate attraverso pensiero ed esperienza. Se le fondamenta sono scalzate la comunità prima si incrina e poi crolla, per finire nei consueti buchi neri di litigi e guerre. Seppur con fatica a un certo punto il buonsenso prevale, generando nuove carte costituzionali e nuova leggerezza del vivere.
La cucina è lo specchio, in gloria e decadenza, dei vari periodi che si susseguono. Difendendone i principi faccio la mia parte nell’ambito che mi compete. Lo stesso mi aspetto che succeda in tutti i settori: produttivi, istituzionali e di pensiero (università, arte, musica, scrittura, religione).
Sono consapevole anche che il cibo scelto, o meno scelto, plasma le persone e ha il potere di modificarne la coscienza, liberandola o incatenandola ad abitudini che possono diventare trappole mentali.
Può naturalmente limitarsi a essere combustibile utile a sfamarsi e a sopravvivere. Ha però molte altre valenze, ad esempio è uno straordinario veicolo di relazione verso i nostri simili, verso noi stessi, verso il mondo che ci circonda e la dimensione trascendente.
Il cibo è nutrimento per il corpo, per la mente e per lo spirito ed è al centro di ogni attività, profana, laica o religiosa che sia.
Merita quindi ogni attenzione, una società banale lo banalizza, una virtuosa lo eleva.
Entrando nel merito osservo come i contenuti della cucina attuale, e i linguaggi della ristorazione, sono solo apparentemente forieri di cultura. Lo scopo di questa sarebbe rendere il terreno fertile così che l’intelletto possa germogliare, facilitare il cammino dell’individuo verso la pura coscienza e infine la felicità.
Nuove invenzioni, nuovi stili di vita, piatti roboanti e che fanno scintille hanno valore zero se non rispettano i principi del Dharma.
Sono testimone e al contempo protagonista del mondo della ristorazione da più di quarant’anni, ho vissuto rivoluzioni importanti quali la “Nouvelle Cuisine”, i movimenti igenisti quali la macrobiotica, l’arrivo di culture da altri luoghi che sempre arricchiscono.
I tempi cambiano velocemente, forse troppo, probabilmente per questo è difficile non lasciarsi assorbire dai mille stimoli che arrivano. Perdendo se non accorti, la barra del timone. La perdita della propria identità è pericolosa e potrebbe rendere le nostre azioni di cuochi non più determinate dal nostro vero sentire.
Uno dei sintomi è la standardizzazione, segnale di adeguamento a metodi che non dovrebbero corrispondere ad ognuno essendo, gli uni e gli altri, individui molto diversi tra di loro. Una delle più grandi peculiarità del genere umano. Le migliori cucine sono quelle dove le personalità di chi realizza emergono.
L’uniformità sta entrando, o è già entrata, in buona parte delle proposte gastronomiche sia a livello della cucina più semplice sia di quella “fine dining”.
Nella prima si fa uso in grande scala di preparati industriali che sicuramente possono facilitare il compito dei cuochi, ai quali di fatto non è più richiesta una capacità di preparare ma piuttosto di assemblare. Ai quali è richiesta una velocità di esecuzione inutile quanto inarrivabile.
Per portare qualche esempio, le brigate di cucina dei grandi alberghi di un tempo erano composte da una sessantina di cuochi. Oggi per la stessa mole di lavoro ce ne sono 10. In altre realtà gruppi di pochissime persone preparano cibo per migliaia, questo potrà essere solo standardizzato. Da mangiatoia più che da tavola nella quale si coltivano i valori descritti sopra.
L’ospite attento e anche il sottocritto, sogna il mondo che è stato e si augura che sarà di nuovo. Che belle le trattorie con mamma, signora e figlio ai fornelli, papà e sorella ad accogliere gli ospiti.
Che bello le brioche fatte in casa dalla chef pasticcera, le arance spremute e non ottenute da concentrati, le verdure comperate fresche e non surgelate.
Fortunatamente, anche se questi luoghi baluardo si stanno diradando, esistono ancora, in molti casi sembrerebbero ignorati da giornali e guide. Che pensano forse, a torto, che l’uniformità possa essere stimolo alla crescita economica e alla cosiddetta civiltà, che possa corrispondere a una supposta evoluzione della razza umana.
Ciò che è nuovo non necessariamente è giusto, i cambiamenti al secolo, se disgiunti da motivazioni profonde, andrebbero al limite annoverati al concetto di trasformazione adattativa al momento storico.
Nell’epoca Tang della Cina antica sicuramente questa era più raffinata e, in molti casi, più virtuosa di quella presente oggi dalle nostre parti. Il cibo durante la “rivoluzione culturale” era pessimo, oggi nel “Paese del Centro” sta rifiorendo.
Una dinamica simile a quella della cucina semplice avviene anche in quella detta gastronomica. Anche in questo caso le scorciatoie a disposizione degli affermati o aspiranti cuochi di successo sono molte. Nelle cucine si fa uso di strumenti sempre più sofisticati, utili per cotture a bassa temperatura con sonde collegate a timer che stabiliscono il risultato ottimale del prodotto scelto, estrattori di essenze, acceleratori di maturazione e chi più ne ha, più ne metta. Poco necessari a preparare piatti fatti con sentimento, per preparare i quali è sufficiente qualche pentola e un mestolo per rimestare.
Altro elemento quasi onnipresente il famigerato armadio delle polveri che contiene tutti i facilitatori possibili, dagli esaltatori di sapidità per dare gusto alle polveri di frutta aggiungendoli una costanza nelle puree di frutta fresca, ai coloranti, ai leganti a freddo, agli sferificanti, agli zuccheri scomposti e molto altro che per mia fortuna mi sono rifiutato di conoscere.
Molti piatti di successo hanno il nome e cognome della tal tecnologia e della tale azienda produttrice, persino del tal fornitore di vasellame che imita magari la concettualità della cucina nordico-giapponese tanto di moda oggi.
Volendo dimenticare l’assunto che la chimica di sintesi non è bene per la salute e che il corpo va nutrito con ingredienti naturali e non sofisticati, tutto ciò potrebbe avere un senso se fosse migliorativo delle capacità artigiane del cuciniere, al quale in troppi casi è anteposta la tal tecnologia. Rischiando di perdere come succede spontaneità, un dato di fatto è che i cibi preparati con semplicità e trasparenza hanno sempre successo. Per un semplice motivo, nell’intimo ognuno preferisce l’essenziale. Questo mette in relazione la nostra anima con creato, creature e Creatore, fatti ognuno della stessa sostanza.
Il ragionamento critico verso la tecnologia eccessiva non vuole escludere di fare uso di bilance e misurini e che il conoscere le caratteristiche del tale ingrediente a una certa temperatura sia sbagliato, nemmeno che tutti i cucinieri siano caduti in quella marmellata.
Le capacità di chi trasforma però e le sue caratteristiche umane, sono il vero punto di partenza di una cucina autentica. La sensibilità interpretativa, l’intuizione di come raggiungere un risultato, l’autenticità di un piatto preparato dall’inizio alla fine, la consapevolezza di aver imparato unendo umiltà, studio, intelletto e azione hanno un valore immenso.
Per l’ospite, per una comunità non alienata e per l’artigiano stesso, che facendo rimane a contatto con se stesso, la via dell’essere è il fare. Essere è esprimere ciò che siamo veramente ciò fonte di grande serenità.
È mille volte meglio essere semplici, realizzando magari un buon raviolo, fatto con le migliori farine e il miglior ripieno possibile o preparando, magari, un risotto un po’ troppo generoso in burro e parmigiano ma reale.
Da Girardet, somma realtà artigiana nella quale ho avuto la fortuna di formarmi, ho imparato a sviluppare il cronometro dentro, a sentire la temperatura e la cottura con le dita, a guardare l’acqua e capire se è salata abbastanza o come comportarmi con il burro arrivato dal contadino quel giorno al quale, necessariamente, va cambiata la proporzione di farina e di zucchero, quale soddisfazione!
Il paragone è con quei programmi che stanno nascendo nei quali lo studente da un tema al computer e questo lo svolge in un battibaleno. Come se il primo scopo dello studio non fosse quello di sviluppare facoltà ma dove contasse solo il risultato ottenuto, in questo caso con mezzi non propri, quale tristezza.
O se il medico cessasse di visitare il paziente misurandogli battito cardiaco e pressione e chiedendogli come sta e che per le diagnosi sapesse solo affidarsi a protocolli, o a colplicatissime macchine.
Vorrei porre l’attenzione costruttivamente critica anche sui parametri compositivi delle pietanze, derivanti da quanto propone di nuovo mamma industria nel mondo della cucina semplice e all’imperversante “culinary correct” nella cosiddetta alta cucina.
I canoni estetici, le indicazione su che cosa cucinare perché di moda in quel momento e su come farlo sono in molti casi prefabbricati dal food designer del momento, dal blogger o dal critico gastronomico che pretenderebbero di dettare ciò che va fatto.
Guide e giornali sembrerebbero consenzienti a una deriva che dal mio punto di vista sta diventando controproducente. L’ospite non capisce più la stranezza del tal piatto che, se generato dalla tecnologia e dalla chimica di sintesi, è molto distante dagli ingredienti che lo compongono.
Finisce per domandarsi: che senso ha che quel ristorante abbia 8 stelle e 300 punti, ma perché quel personaggio è portato sull’altare televisivo? E per finire chi li portasse nel gotha perderebbe ogni credibilità.
Per certo invece quelle trattorie sono sempre piene e vi si respira un clima di serenità, arcaica e rassicurante, soprattutto si perpetuano i valori del buono e del giusto. I ristoranti concreti, che non seguono la moda e dove chi li conduce esprime se stesso durano nei decenni, gli altri come fuochi di paglia appaiono e scompaiono.

Movimento di cucina concreta

Il mio intento è stimolare l’inizio di un movimento di cucina concreta, al quale aderire seguendone i principi. Quelli da me proposti non necessariamente sono definitivi, mi riservo di dibatterne con amici colleghi, amici critici e giornalisti, amico pubblico. Un decalogo apparentemente in controtendenza, corrispondente però ai valori perpetuati a memoria d’uomo, a volte dimenticati ma sempre presenti nella nostra pura coscienza, quella che ci fa distinguere sempre ciò che è meglio. Poi magari non riusciamo a realizzarlo fino in fondo ma gradualmente ci avviciniamo, sentendoci mano mano più liberi.
L’intento è stabilire dei parametri di riferimento, semplici quanto concreti. Una lista a vero dire ambiziosa alla quale io stesso riesco ad aderire per un 90%, mi sento però sulla buona strada.
Ricordandomi sempre che applicando dei principi virtuosi si promuove la virtù.
Gli interlocutori non saranno classificati per categoria ma per aderenza ai principi.
Un movimento trasversale nel quale possano convivere ristoranti gastronomici con osterie, pizzerie, trattorie, gastronomie, enoteche, persino self service se aderiscono ai parametri proposti.

La proposta di Venticalogo

  1. Il punto di partenza di ogni cucina è che questa sia sano nutrimento per l’ospite.
  2. I piatti serviti sono da preparare dall’inizio alla fine in casa.
  3. I semilavorati utilizzati sono solo gli ingredienti di base come la farina, il burro, lo zucchero, il cioccolato, gli aceti, la salsa di soia, la pasta secca, il pane, gli oli. Se ad esempio i ravioli o i fermentati non possono essere autoprodotti non saranno inseriti nel menu. Lo stesso vale per i dolci.
  4. Se sono inseriti semilavorati che sentiamo migliorano la nostra proposta, ad esempio dei dolci di un bravo pasticcere o le marmellate della tal produttrice, questi vanno dichiarati. Così come i surgelati.
  5. Sono esclusi i prodotti della chimica di sintesi quali coloranti, glutammati, acido citrico, aroma di tartufo, sferificanti ma anche dadi e polveri di frutta.
  6. Il viaggio tra il produttore e il ristorante deve essere nella media al massimo 1000 chilometri. Per esempio se siamo in Alto Adige e le pere vengono dal posto, le arance provengono dalla Sicilia la media sarà di 600 km. Le arance però non dovranno provenire dal Perù.
  7. Utilizzare solo prodotti di stagione, qualche eccezione è possibile rispettando il parametro dei 1000 km.
  8. Non utilizzare metodi di cottura non naturali quali il microonde ma solo metodi di cottura con la materia prima a contatto con la fonte di trasmissione del calore che avverrà attraverso la conduzione di acqua, olio e grassi, aria.
  9. Abbandonare il consumo di plastica usa e getta sia nella cottura che nella conservazione. Quindi no sottovuoto, no pellicola trasparente. Preferire poi recipienti in acciaio con coperchio piuttosto che recipienti di plastica. Adottare detersivi non impattanti per l’ambiente.
  10. Rifuggire gli sprechi, di cibo, energetici, di risorse in generale. Buona abitudine ad esempio utilizzare ogni parte dei vegetali, spegnere i forni quando non più utilizzati. Promuovere il buono, questo diminuisce esponenzialmente il cibo gettato.
  11. Servire i cibi solo se freschi dando loro al massimo 2 giorni di conservazione. Da questo naturalmente sono esclusi fermentati, formaggi stagionati, ecc. Bene utilizzare metodi di conservazione tradizionali come l’essicazione, la conservazione sotto sale, sott’aceto, ecc.
  12. Acquistare solo prodotti dei quali si conosce la filiera, meglio ancora direttamente dai contadini. Solo se di origine naturale e non trattati con pesticidi. Gli altri semplicemente escluderli. Bene per chi può la raccolta di erbe e radici spontanee, le cime di abete, la linfa di betulla e cosí via.
  13. Impostare il menu in funzione del numero dei cucinieri e della loro formazione.
  14. Proporzionare il numero di piatti proposti in funzione delle vere potenzialità. Meglio pochissimi piatti ben fatti. Il fine migliorare la qualità, diminuire gli sprechi e diminuire lo stress lavorativo.
  15. Stabilire degli orari di lavoro e i giorni di lavoro in modo tale che ci siano delle pause per riposarsi, per mangiare, per rigenerarsi.
  16. Compensare adeguatamente i collaboratori in funzione della loro generosità, capacità, buon carattere, partecipazione, fedeltà, anzianità.
  17. Promuovere i valori dell’artigianalità, del rigore e del piacere al lavoro, della cultura, della formazione e dell’apertura ad altre culture.
  18. Essere inclusivi nelle diversità di genere, di pensiero, di religione, di provenienza dando valore alla persona, alla sua predisposizione e alle sue capacità.
  19. L’importanza dell’ambiente dove si celebra il rito dello stare assieme è estremamente importante e dovrebbe corrispondere alla cucina che vi è proposta. Una cucina semplice ad esempio è ben supportata da un locale sobrio.
  20. La buona accoglienza, la gentilezza e il sorriso sono alla base di ogni incontro tra persone, non possono essere sostituiti dalla formalità. Far sentire l’ospite a suo agio, servirlo con gentilezza, è un compito di grande importanza, almeno altrettanto della qualità del cibo. Dare quindi grande importanza ai mestieri di Sala.